KALASHNIKOV COLLECTIVE: più che una band – intervista – [italian only]
I Kalashnikov (o meglio, Kalashnikov Collective) sono più che una band e negli anni l’hanno saputo dimostrare al meglio. Una realtà creativa, vivace e al di fuori di molti schemi. Intervistarli è stato un piacere: leggere risposte così sincere e che hanno il sapore di una coscienza conquistata e forgiata negli anni mi ha fatto apprezzare ancora di più la genuinità di questa band… che è più che una band!
I loro discorsi valgono per tutti, dai punk più trasandati ai kids più modaioli: tutti dovrebbero fermarsi, leggere e riflettere. Perchè da alcune persone c’è proprio tanto da imparare, che si possa condividere o meno la visione che propongono.
Poche chiacchiere. Ecco a voi una bella intervista: Kalashnikov Collective, romantic punx da Milano!
1) Kalashnikov Collective: un collettivo quindi, non una band. E’ una provocazione oppure c’è del vero in questo? Cosa c’è di diverso nel rapporto tra i vari membri del gruppo? E verso la musica in generale?
Collettivo significa “persone che stanno insieme per un fine comune”. Il termine band, o gruppo, invece indica “persone che stanno insieme per suonare”, ciascuna identificata nel suo strumento o nel suo ruolo predefinito. Troviamo che la parola collettivo sia più libera e, perciò, maggiormente adatta a descrivere quello che facciamo, dove sono importanti le idee, non tanto l’affermazione narcisistica della persona. Nessuno di noi si identifica particolarmente con lo strumento che suona, come farebbe un qualsiasi “professionista”: piuttosto ciascuno aiuta gli altri portando avanti un pezzo del progetto Kalashnikov, che utilizza la musica, scrittura, immagini e il nostro stesso modo di essere per veicolare idee libertarie. Nessuna facile provocazione, quindi! Infine ci sembrava giusto per ripensare anche ciò che si da per scontato, come il fatto che se suoni assieme ad altre persone devi per forza definirti come una “band”. Questo termine ricorda il “divismo”, l’idolatria nei confronti del musicista promossa dal music-business ufficiale, con relativo codazzo di “fans” consumatori da ammansire affinché continuino ad acquistare. Tutto questo non ci appartiene, per cui…ebbene sì, siamo un collettivo!
2) Suonate una musica molto personale, una ricetta tutta vostra che potrebbe essere quasi identificata come visionaria. Da dove deriva questa ecletticità? E’ tutta farina del vostro sacco oppure anche voi come tutti avete delle band di riferimento?
Quando abbiamo iniziato con i Kalashnikov (alcuni secoli fa) eravamo volevamo semplicemente suonare la musica che ci sarebbe piaciuto ascoltare. Può sembrare un po’ pretenzioso, ma alla fine è così. Siamo cresciuti ascoltando punk: il nostro immaginario, la nostra etica, la nostra ispirazione è sempre stata legata a quel mondo; però non ci siamo mai identificati in quell’immagine machista e ginnica dell’h.c. che andava di moda negli anni ’90 (anni nei quali siamo cresciuti), quell’intransigenza sonora, quell’essere per forza “a muso duro”, il fatto di dover suonare a tutti i costi veloci, rumorosi, cinici… né ci piaceva l’attitudine cazzonara di tante band punk-rock dell’epoca. Tutti, bene o male, avevano come riferimento gli Stati uniti, quella sottocultura da cui venivano fuori i Green day, i Nofx e tutti i gruppi più o meno “divertenti” degli anni ’90. Noi invece amavamo i Wretched, i Discharge, gli Anti-cimex, gli Aus Rotten, i Nausea, il crust giapponese, tutto il vecchio anarco-punk inglese del giro Crass… quell’immaginario, quella urgenza, quel modo di intendere il punk, molto politico e con radici profondamente e fieramente DIY… Però amavamo anche musicisti che non avevano a che fare con il punk e che avevano scritto belle canzoni con testi poetici, che potevano essere inni contro il sistema, contro un certo modo di vivere e affrontare il mondo, che raccontavano storie in grado di emozionare, far piangere, far gioire… Con i Kalashnikov volevamo trovare una specie di via in mezzo a tutto questo: essere punk (non potevamo essere nient’altro, direi!), ma in un modo nostro che unisse la poesia e la politica, l’amore e l’anarchia, il significato e la musica, in maniera organica, senza dover per forza essere o incazzati o melensi. Un po’ come quello che hanno fatto alcuni gruppi punk originali, che hanno cercato di andare aldilà degli schemi punk/hc (mi vengono in mente i Chumbawamba, ma anche altri gruppi inglesi di cui si conosce poco del periodo successivo agli esordi punk, come Anti-Nowhere League, Blitz, Chron Gen, Uk Subs, Angelic Upstarts … che negli anni ’80 inoltrati incisero dischi davvero belli e strani, che non suonavano più classicamente punk rock), oppure musicisti come Robert Wyatt, Peter Gabriel (in Inghilterra), il Banco del Mutuo Soccorso, gli Area (in Italia), che tra gli anni settanta e gli ottanta non hanno mai rinunciato a scrivere musica “politica” e creativa pur nel contesto del music businnes e secondo le formule pop, seguendo una strada tracciata da loro e da nessun altro.
Da tutto questo è nata quella definizione un po’ contraddittoria e provocatoria di “romantic punk”. Non c’è niente di apparentemente romantico nel punk, ma siamo tutti umani, viviamo tutti di passioni, emozioni, sentimenti più complessi dell’odio e della rabbia… quindi perché negarlo? Nella nostra prima cassetta si leggeva: “Perché essere punk se puoi essere te stesso?”, una frase che colpì molto chi la leggeva, anche se oggi non la userei più, perché mi sembra un po’ trita e facile da fraintendere… il suo significato era semplicemente: basta omologarsi ai soliti modelli! Anche se si tratta di modelli “alternativi”, come il punk, che tra l’altro, in quegli anni (fine ‘90), era diventato un genere musicale di massa e non rappresentava più un bel niente di realmente alternativo. Autodeterminazione!
A livello strettamente musicale, ci siamo sempre sentiti liberi di fare quello che ci piaceva, senza pensare al fatto che una cosa o l’altra non fosse adatta per il “genere”. L’importante era scrivere belle canzoni e realizzare le idee che avevamo in testa, aldilà del riff, degli arrangiamenti o delle scelte di suono. Fin dall’inizio dei Kalashnikov ascoltavamo generi musicali che non c’entravano nulla col punk, dal rock psichedelico degli anni ‘60 (Doors in particolare) al rock progressivo di gruppi come King Crimson, Camel, Genesis, dall’ambient dei musicisti kraut-rock come Popol Vuh, Tangerine Dream e Klaus Schulze alla musica etnica e tradizionale, in particolare quella russa, che all’inizio dei Kalashnikov ci influenzò molto. Il nome “Kalashnikov” è nato proprio per dire: la nostra ispirazione non arriva da ovest (gli USA), ma da est! Una specie di scelta di campo da tempi della Guerra Fredda! C’è stato un periodo in cui ascoltavamo tantissima musica tradizionale russa, eravamo andati anche ad un terribile concerto del corpo di canto dell’Armata Rossa… il pubblico era composto da settantenni, ma ci divertimmo un sacco, era bellissimo sentire quelle melodie, quei brani che conoscevamo a memoria suonati dal vivo, anche se si trattava di qualcosa di molto simile ad un’orchestra di liscio… Questo per farti capire che musicalmente siamo sempre stati molto eclettici e non ci siamo mai preoccupati che una cosa appartenesse ad un genere piuttosto che ad un altro. L’etica punk ci ha insegnato che spesso le cose importanti stanno dietro all’apparenza “musicale”, ovvero nell’attitudine, nell’approccio, nel significato, in quello che trasmetti e comunichi.
3) Siete un gruppo composto da persone che prestano molta attenzione alla politica. Come vedete l’etichetta, spesso abusata, di “gruppo politico” che viene data a band punk e hardcore? Pensate che sia riduttivo, limitante e vincolante oppure c’è del buono in questa definizione?
C’è un certo fraintendimento sulla parola “politica” e sul concetto di “band politica”… Noi la vediamo in questi termini: ci sono gruppi che fanno veri e propri proclami politici, altri invece che – come noi – parlano di altre cose nelle proprie canzoni però poi risultano ugualmente un gruppo “politico”. Perché? Perché la politica, al nostro livello, è una questione di scelte di vita, di etica, di rapporti umani, di tensioni, non di tessere, ideologie, di proclami… La politica nella sua accezione parolaia e sloganistica non ci piace: quello che ci interessa è la vita, nella quale le scelte “politiche” vengono messe in pratica, dove diventano azione, rapporti sociali, quotidianità. Ognuno di noi, nel collettivo, ha le proprie convinzioni politiche ed etiche, partecipa al movimento in maniera differente, mentre con il gruppo quello che ci interessa fare di “politico” è portare avanti l’idea di un certo modo di fare le cose, di vivere in mezzo alla gente. Non vogliamo essere un gruppo anarchico, autonomo, eco radicale, vegano… cioè legato a determinato “bandiere”… non vogliamo essere catalogati sotto un’etichetta ideologica; quelle cose (vegano, anarchico etcetc…) ciascuno di noi sceglie di esserle nella vita e di comportarsi di conseguenza, e tutti noi cerchiamo di portare le nostre scelte tra le persone che frequentiamo, nei posti dove andiamo. Siamo percepiti come gruppo politico perché noi siamo persone che danno importanza a certi valori, a certe idee, e tutti lo sanno, lo capiscono da quello che facciamo e da come lo facciamo. Che poi cantiamo storie d’amore o di “fottere il sistema”, poco importa. Il punk non è nato dai proclami politici: è nato come prassi rivoluzionaria, almeno per quanto riguarda l’organizzazione sociale, le gerarchie, l’arte, il mercato. E’ stato un movimento nato anche dal disgusto delle nuove generazioni per la politica fatta nelle sedi di partito, nei libri e nei comizi, e che ha proposto/rivalutato una “via politica” al fare (musica, concerti, ma anche altro) che bastasse a se stessa, un modo di vivere con le persone e il mondo che ti circonda, un sistema alternativo di valori estetici, un modo pratico per rifiutare le regole del mercato capitalista e della società dei consumi… Questa è la base. Poi vengono i testi politici, poi vengono le prese di posizione, le rivendicazioni di appartenenza, gli slogan etcetc… ma prima di tutto il punk è un modo di fare e di vivere con gli altri nel quotidiano, che si rispecchia nella gestione del tuo gruppo e della tua musica. Senza questo aspetto non c’è il punk, c’è solo un genere musicale come tanti altri.
4) Recentemente avete pubblicato un ironico (ma comunque realistico) manualetto di istruzioni per chi volesse invitarvi a suonare (doverosa la lettura: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=10151706763877717&id=76292207716 ). Era ora che qualcuno dicesse certe cose, che possono sembrare ovvie a chi usa un minimo di criterio nel far le cose, ma che per molti ancora suona come assurdo. Che risposta ha avuto questo breve testo? Pensate che ci sia il modo di cambiare le cose per quanto riguarda l’organizzazione di eventi che richiedono l’apporto musicale/artistico di band per cause legate all’attivismo politico?
Noi siamo molto conosciuti nel giro per la nostra disponibilità a supportare gli spazi occupati e a sostenere i benefit per i compagni e le compagne che si trovano in difficoltà; cosa che facciamo sempre con spirito di solidarietà e complicità; il che tradotto, significa che non chiediamo mai un tot di soldi né abbiamo particolari pretese quando andiamo in giro a suonare. In oltre dieci anni di attività di situazioni scassate ne abbiamo vissute parecchie, ma questo non ci ha fatto certo cambiare idea sulle scelte etiche che abbiamo fatto e facciamo tutt’ora.
Ci piace però anche essere onesti con noi e con gli altri, e siamo anche persone spiritose che amano farsi due risate, anche di fronte alla più disagevole delle situazioni e alla disorganizzazione più clamorosa. Diciamo che siamo abbastanza di bocca buona: abbiamo dormito in furgone in pieno inverno, sul palco dopo il concerto, in un fienile invaso dai topi, in posti senz’acqua e senza elettricità, in case pericolanti, in mezzo alla merda di cane, in letti invasi dalle formiche, con il sole in faccia, la musica a palla per tutta la notte, con la gente che scopava sul materasso di fianco, in un orto abusivo, in posti in cui non ci stavamo nemmeno sdraiati, in sette in un camper, in una tenda in mezzo al bosco con due gradi sottozero, mangiato riso da un catino, bevuto acqua piovana, tornati a casa alle cinque del mattino in mezzo a bufere di neve, banchi di nebbia impenetrabili, dopo centinaia di chilometri di veglia… insomma, hai capito.
Però è anche vero che per evitare situazioni disagevoli e garantire ai gruppi un minimo di confort basterebbe un piccolo sforzo d’attenzione in più. Niente di che. E’ questo che volevamo dire con quella specie di vademecum.
Per quanto riguarda nello specifico i benefit, sintetizzerei tutto dicendo che a volte i benefit si trasformano in malefit, per i gruppi che ci suonano (che non prendono un centesimo per il rimborso), per gli organizzatori (che ci smenano pure loro dei soldi). Ovvero: spesso sarebbe meglio che i gruppi (anziché prendere il furgone, regalare soldi alla società autostrade, agli autogrill, ai benzinai, sparandosi un mare di chilometri) facessero una bella e sana colletta tra loro, spedendo i soldi da casa direttamente al destinatario del benefit. Suonare benefit davanti a dieci persone e tirar su 30 euro da devolvere alla causa è simpatico, e tutto sommato ci fa sempre piacere, ma a volte qualche domanda te la fai. E’ un discorso molto razionale, e per questo un po’ grigio, lo so, però se è la causa ad essere importante, allora è giusto che le energie vengano convogliate in essa, e non che la causa diventi un mero pretesto per organizzare un concerto a costo zero.
In fondo, ciò che bisogna fare per migliorare, come dici, “l’organizzazione di eventi” sta proprio nella tua frase: ovvero nell’organizzazione! E’ banale, ma è il primo (e forse anche l’ultimo?) passo: sbattersi, organizzare al meglio e curare ogni aspetto con la medesima passione, con senso di realtà e senso pratico! Almeno questo. Poi le cose possono sempre andar male comunque, ma almeno quello che è in tuo potere l’avrai fatto!
La risposta che ha avuto il nostro post? Beh, grandissima solidarietà da parte dei “musicisti” come noi… e nessun riscontro da parte del resto del mondo!
5) Se non sbaglio portate avanti anche una distro. Cosa distribuite? E sempre se non sbaglio, mi sembra di aver capito che la distro funziona ad offerta libera. Qual’è la risposta del pubblico a questo tipo di iniziativa?
Sì, abbiamo una distro di materiali (dischi, libri, ‘zines, magliette e toppe…) legati al circuito DIY o anarchico-libertario. Cercando una coerenza con questo tipo di idee, abbiamo pensato di rifiutare la logica della “vendita”, dove i ruoli e le gerarchie sono rigidamente definite, per rifarci a qualcosa di più simile al “baratto”. Così è nata questa idea del “prezzo libero” che, dobbiamo dire, è stata davvero azzeccata perché spiazza e spinge a porsi delle domande. Quando qualcuno si avvicina al banchetto e ci chiede “Quanto costa?”, si sente rispondere: “Quello che pensi che valga”. In una società dove il valore delle cose è sempre suggerito da un cartellino del prezzo, fermarsi a soppesare la reale utilità degli oggetti, significa superare il concetto di “merce”, dove le cose invece servono per quanti euro ci possono far guadagnare o spendere. Inoltre, è divertente vedere quanto le persone a volte si trovino spiazzate da questa insolita domanda: in effetti, per quanto sia ovvia, nessuno ce la rivolge mai! Questo espediente ribalta la gerarchia di potere tra chi vende e chi compra, dando a quest’ultimo la completa facoltà di decidere, ponendosi di fronte all’interrogativo etico se approfittarsi o meno di questo inaspettato vantaggio. E’ una pratica che mette in gioco concetti come sincerità, solidarietà e complicità tra chi compra e chi vende: in fin dei conti, prendere qualcosa dalla nostra distro significa supportare le nostre attività, essere in qualche modo parte del nostro collettivo. In definitiva, è un nuovo modo di intendere lo scambio di cose, valorizzando le idee e la sostanza, non più il profitto e il tornaconto personale. Immagino che molti si chiederanno se la cosa possa funzionare e sia, per così dire, “sostenibile” per chi la pratica. Beh, noi la pratichiamo da qualche anno ormai…Se funziona? Provate voi stessi!
6) Avete avuto modo di suonare anche all’estero, in Paesi come la Germania e la Grecia, due realtà che in questo momento storico sono forse quasi due esempi antitetici nell’analisi della situazione socio-economica europea. Come avete percepito le rispettive comunità punk? E che risposta ha avuto la vostra musica? Quali sono le cose che vi sono piaciute e che vorreste importare in Italia?
Germania e Grecia, ovvio, sono molto diverse, ma le scene di entrambi i paesi rappresentano realtà molto belle per quanto riguarda il punk e il DIY. La Germania, per noi, rappresenta un sano equilibrio tra musica e attivismo, tra buona organizzazione, diciamo, “tecnica e logistica” e un contesto nel quale si respira un interesse per tutto ciò che sta dietro all’etica DIY e ha a che fare con la politica. Un altro aspetto che amo della Germania: ai tedeschi interessa poco chi sei, come ti vesti, qual’è la tua provenienza o quanti amici hai su facebook: ai tedeschi interessa la sostanza, la musica, quello che fai e quello che dici. E’ un fatto molto importante, che determina il fatto che non si creino tante divisioni tra generi e ambienti, come accade da noi.
Certo, la Germania è un paese relativamente ricco e con un welfare solido: questo potrebbe far pensare che lì sia tutto più semplice; può far sospettare che la musica e l’attivismo politico se lo possano permettere in particolare quelle persone che vivono una certa stabilità di vita… in questo senso si inserisce il discorso sulla Grecia, che è forse una delle realtà più vitali che abbiamo mai visto nel contesto punk DIY. Lì la situazione economica la si conosce tutti, ed è tangibile una volta che si mette piede da quelle parti. Fatto sta che la cosiddetta crisi non ha minimamente scalfito l’entusiasmo e l’attivismo della comunità punk greca. Anzi, forse lo ha addirittura rafforzato. Noi siamo stati a suonare in Grecia tre volte, la prima nel 2007, quindi precedentemente alla “crisi”, e abbiamo visto crescere l’entusiasmo in questi anni. Lo scorso marzo, nell’attuale situazione socio-economica del paese, abbiamo suonato all’università occupata di Atene, davanti a più di mille persone: situazioni e numeri impensabili per la nostra (e non solo) scena punk. Oltre alla passione e alla voglia di partecipare, trai greci c’è l’idea che la politica sia un fatto che coinvolge tutti: tutti si sentono “politicizzati”, costretti a prendere una posizione sulla realtà che li circonda. Questo forse è un po’ paragonabile a quello che succedeva anche in Italia negli anni ’70: partecipazione, attivismo e politica erano aspetti del quotidiano.
Per quanto riguarda la nostra musica, direi che fortunatamente ha sempre un buon riscontro all’estero. Dal vivo facciamo i pezzi più ballabili, perché pensiamo che la musica punk sia fatta anche per questo, oltre a far pensare, deve essere una festa da condividere con le persone che hai davanti, intorno. In paesi come Germania e Grecia, come già detto, ci si fanno molte meno menate per quanto riguarda i generi musicali, la discendenza artistica di chi suona e gli aspetti estetici della questione. Questo è fondamentale, e vorremmo che fosse così anche in Italia (dove, purtroppo, è l’esatto opposto!).
7) Sul vostro blog si legge un trafiletto, intitolato “Coerenza”. (sulla colonna di destra, http://www.kalashnikov-collective.blogspot.it/). Vi scontrate spesso con questo genere di critiche? Siete sempre così positivi oppure delle volte vi chiedete “ma chi ce l’ha fatto fare?”, se non “ma perchè devono rompere le palle proprio a me?”
Fortunatamente, nel giro punk accade molto di rado, fuori molto più spesso. Il problema è che le persone hanno paura delle scelte radicali, delle prese di posizione nette, delle scelte controcorrente, perché mettono in discussione quel sistema di ovvietà che fanno andare avanti il mondo, permettendo loro di stare con il culo al caldo fregandosene dei problemi che stanno intorno. La massa tende al ribasso e sta bene nel suo brodo di mediocrità. Se metti in discussioni le sicurezze delle persone, nella maggior parte dei casi riceverai diffidenza e, nei casi peggiori, disprezzo. Il disappunto di tanta gente nasce dal fatto che gli rovini la tranquillità, gli ricordi che esiste una cosa che si chiama coscienza e che loro hanno seppellito tanto tempo fa… Però il problema non è nostro, sta fuori, per cui non ce ne preoccupiamo troppo…
8) Quanto è importante la musica nella nuova società che le varie correnti rivoluzionarie vogliono creare? E’ una proporzione giusta oppure secondo voi l’arte viene considerata poco nella costruzione di un mondo migliore?
La musica è poesia, letteratura, immaginazione… E’ una forma di comunicazione, un linguaggio molto potente. Però spetta ai musicisti utilizzarlo al meglio. E farlo funzionare! Ogni forma di espressione può cadere nell’insignificanza, nel mutismo, farsi sommergere dal frastuono di quello che sta intorno se diventa un gesto gratuito, narcisistico o dettato dalla noia. L’arte dovrebbe emozionare o far pensare per poter “funzionare”, per parlare ad un interlocutore; se non fa niente di tutto questo, purtroppo, scivola nell’indifferenza e resta mero intrattenimento. Che non c’è niente di male in sé, a patto che non si abbiano troppe ambizioni… perché così ci si abitua a sottovalutare la forza e il ruolo sociale dell’arte ed in particolare della musica: oggi ci si è abituati a pensare alla musica come ad un oggetto di consumo, una forma di intrattenimento che non deve prendersi troppe responsabilità, un gesto narcisistico, l’accessorio di un determinato look…
Comunque la musica, come tutte le espressioni “artistiche”, non cambia il mondo (purtroppo), ma può cambiare le persone alle quali spetta il compito di cambiare il mondo! E in particolare, pensiamo che l’arte cambi prima di tutto le persone che la praticano, che la fanno. E per arte non intendiamo qualcosa che appartiene ad una élite o qualcosa che necessita di particolari conoscenze o abilità per essere praticata, ma una cose per tutti. Una società che invitasse le persone ad essere artisti e a praticare liberamente l’arte sarebbe l’anticamera di un mondo migliore…
9) Per concludere, una domanda terra-terra: cosa bolle in pentola per i Kalashnikov? Cosa vi piacerebbe fare?
Semplicemente….continuare a fare quello che già facciamo! Ovvero: suonare viaggiando in giro per il mondo, registrare musica, portare avanti progetti nell’ambito degli spazi occupati, autogestendoci e intessendo relazioni di amicizia autentiche con chi pensa che, nel mondo, le cose non vadano esattamente per il verso giusto. Cosa ci può essere di meglio?
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